San Nicola di
Trullas |
La Sardegna divenne ufficialmente bizantina nel 534. Dopo la cacciata dei
Vandali ad opera dell’imperatore Giustiniano, l’Isola fu infatti annessa
all’esarcato d’Africa, di cui costituì una delle province, e fu affidata
al controllo supremo del Prefetto africano del Pretorio, con sede a
Cartagine. Il governo bizantino, però, essendo consapevole della posizione
baricentrica – e dunque altamente strategica – che l’Isola occupava
nell’ambito del Mediterraneo, pose l’amministrazione civile sotto le
direttive di un praeses residente a Cagliari, delegando un dux per il
comando delle forze armate, di stanza a Forum Traiani, (l’odierna
Fordongianus), in una postazione cioè volutamente arretrata per il
controllo costante delle regioni montuose dell’interno. Nonostante questi
provvedimenti cautelativi, la Sardegna continuò comunicare a
rappresentare, rispetto a Costantinopoli, un territorio limitaneo e, come
tale, difficile da difendere, soprattutto nel momento in cui anche la
Sicilia nell’827, cadeva sotto l’occupazione araba. In quel contesto la
Sardegna rimaneva completamente isolata; perciò pur appartenendo ancora
nominalmente all’Impero d’Oriente, era naturale che si emancipasse
organizzandosi secondo forme istituzionali autonome. Contemporaneamente,
anche la Chiesa Sarda si riformò all’insegna dell’autogoverno, divenendo
autonoma, autocefala e indipendente sia da Costantinopoli, sia da Roma;
mantenne però riti e culti greci, conservando pressoché intanto il legame
spirituale con la Chiesa bizantina. Tale situazione si protrasse fino al
1054, anno dello Scisma fra la Chiesa Cattolica e quella Ortodossa, in
seguito al quale fu promossa un'intensa attività riformatrice per
ricondurre la Sardegna sotto la giurisdizione spirituale della Santa Sede.
Ma, evidentemente, la cultura e le tradizioni di matrice greco-orientale
erano ormai ben radicate nell’Isola, tanto che, per convincere i Giudici
sardi a sottomettersi all’autorità del Papato, il pontefice Gregorio VII
fu costretto a ricorrere alla minaccia dell’occupazione militare. Solo con
l’arrivo dei Pisani, all’inizio del secolo XI, la Chiesa di Roma
ripristina – e solo gradatamente – il predominio religioso in Sardegna,
anche se i retaggi della cultura e della spiritualità bizantina, divenuti
ormai parte integrante dell’identità collettiva del popolo sardo,
continuarono a persistere come elemento ancor vivo e vitale del patrimonio
culturale tradizionale. È purtroppo impossibile, in virtù dei dati di cui
disponiamo, stabilire esattamente quale sia stata l’incidenza
dell’influsso bizantino in Sardegna: l’insufficienza delle fonti
documentali a riguardo è tristemente famosa; inoltre, ad essa si aggiunge
la problematica relativa a quella vera proprio damnatio memoriae a cui la
cultura di matrice greco-orientale, in particolar modo quella religiosa,
fu sottoposta all’indomani dello scisma con la Chiesa di Roma. |
È comunque consentito ricostruire, se pur genericamente, il
quadro culturale dell’epoca, ad esempio dal VI secolo esistono documenti
che confermano la diffusione del rito greco in Sardegna. In un’epistola di
Gregorio Magno, datata 594 e indirizzata al Primate sardo Gianuario, si
legge: “Pervenit quoque ad nos quosdam scandalizatos fuisse, quod
Presbyteros chrismate tangere eos, qui Baptizandi sunt, prohibuimus. Et
nos quidem secundum usum veterem Ecclesiae nostrae fuimus; sed si omnino
hac de re aliqui contristantur, ubi Episcopi desunt, et Presbyteri etiam
in frontibus baptizandos chrismate tangere debeant, concedimus.”- “Ci è
giunta notizia di aver provocato in molti grave scandalo perché abbiamo
proibito ai presbiteri di toccare col crisma i battezzandi. Abbiamo fatto
questo seguendo l’antico uso della Nostra Chiesa: ma poiché per questo
provvedimento alcuni si sono contristati, concediamo anche ai presbiteri
di ungere col crisma la fronte dei battezzandi là dove manchino i
vescovi”. Secondo la tradizione greco-orientale, il sacramento della
cresima veniva impartito durante il battesimo solenne ad opera di un
semplice sacerdote che ungeva col sacro crisma la fonte del battezzando;
questa prassi liturgica era però in contrasto col le disposizioni del
Canone Romano, che riservava simile facoltà esclusivamente ai vescovi,
perciò fu vietata. A quando attesta l’epistola di Gregorio magno, tale
proibizione fu accolta in Sardegna con particolare disappunto; se ne
deduce che la liturgia di osservanza greca era talmente penetrata nel
costume locale da non poter essere soppressa neppure coi provvedimenti
pontifici. Preso atto di questa situazione, il Papa fu quindi costretto a
concedere circostanze di eccezionalità – la mancanza del vescovo, appunto,
- in cui l’esplicazione del rito potesse essere dichiarata lecita. Il
problema dell’amministrazione del battesimo ad opera dei sacerdoti era
stato l’oggetto di un altro richiamo del pontefice al primate sardo; nella
lettera datata settembre 593 è scritto: “Episcopi baptizandos infantes si
guare in frontibus bis chrimate non praesumant: sed Presbyteri baptizandos
tangat in pectore, ut Episcopi postmodum tangere debeant in fronte…”- “I
vescovi non presumano di segnare col sacro crisma due volte nella fronte i
bambini battezzati, ma i presbiteri ungano prima nel petto i battezzandi,
in modo che dopo i vescovi possano ungere sulla fronte”. È dunque
indiscutibile che la riluttanza della Chiesa sarda ad abbandonare il rito
greco a favore di quello latino abbia rappresentato per la Santa Sede un
problema per lungo tempo irrisolto. L’esempio forse più eclatante di
questo conservatorismo riguarda l’uso della barba da parte del clero
sardo, una regola della Chiesa orientale ed un’usanza peraltro osteggiata
tenacemente della Chiesa Romana. Persino papa Gregorio VII nel 1080 aveva
inviato un giudice di Cagliari, Orzocco, attraverso una lettera, a
riformare la disciplina del clero sardo, esortandolo, in particolare, a
convincere l’arcivescovo Giacomo a radersi la barba e a farla radere a
tutto il clero a lui sottoposto. Il terreno di scontro in questo caso non
era né di tipo dogmatico né di tipo liturgico, ma interessava
semplicemente una consuetudine, oltretutto di tipo esteriore. Che
possedeva però il grande valore di un credo religioso e comportava come
tale un enorme potenziale simbolico. Nel 1227 la tradizione greca di
portare la barba era ancora in auge fra le clero sardo: lo dimostra,
nell’inventario di S. Maria di Cluso in Cagliari, la presenza, fra gli
strumenti del corredo liturgico, di una “mitra infresata cun pectine”, di
“Mittre III (tres)cun duobus pectinis”. Un’altra consuetudine che è
rimasta per lungo tempo in Sardegna come retaggio dell’influsso bizantino
è il calendario in partenza dal mese di settembre: l’inizio dell’anno
liturgico che in origine nel mondo greco - orientale cadeva il 23
settembre fu poi, nel VII-VIII secolo, anticipato al 1° giorno dello
stesso mese per ovvi motivi di praticità. Nell’Isola ritroviamo
documentato l’uso dii questo sistema cronologico fino al XIV secolo. Negli
Statuti Sassaresi; invece, ma anche nella cultura popolare, questa
tradizione è ancora presente: in quasi tutta la Sardegna, infatti, in
dialetto il mese di settembre è chiamato Kabidànni, Kaputàanni, (con le
diverse varianti locali), proprio in ricordo dell’antico calendario. La
diffusione del culto bizantino in Sardegna è connesso con la presenza
nell’Isola del monachesimo greco, eremitico e cenobitico. Secondo una
certa tradizione la sua introduzione sarebbe stata favorita, nel IV
secolo, dallo stesso S. Lucifero che, avendo apprezzato l’attività dei
monaci durante il suo esilio in Asia minore, volle avvalersene per
evangelizzare e convertire le popolazioni pagane. In realtà non esistono
prove in proposito. È certo, invece, che alla diffusione del monachesimo
nell’Isola abbia contribuito S. Fulgenzio da Ruspe, come è narrato nella
sua Vita, attribuita al discepolo Ferrando. I monaci greci furono artefici
anche in Sardegna della fondazione di numerose chiese e monasteri, eretti
in generale al centro di vasti latifondi, i quali, destinati poi alla
coltivazione e al pascolo, divennero spesso vere e proprie aziende
agricole, cellule produttive di prima importanza nell’economia isolana.
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Gli edifici sacri di ascendenza bizantina presenti in Sardegna
sono innumerevoli e la loro diffusione è registrata in tutta l’Isola. Sono
da ascrivere al periodo bizantino, ad esempio, tutte quelle chiese che si
rivelano consacrate ai Santi del Menologio; simili dedicazioni, infatti,
hanno come terminus post quem non necessariamente il 1054, anno dello
scisma fra Cattolici e Greco-Ortodossi; sarebbe altrimenti impensabile,
ammettendo una cronologia posteriore a questa data, che si intitolassero
aule di culto a santi della Chiesa Greca, ormai autocefala e scomunicata,
anziché ai canonizzati della Chiesa Romana. Era la norma, infatti, in
svolte radicali di questo genere – come può essere uno scisma –
realizzare, come abbiamo già detto, una sorta di damnatio memoriae e
sottoporre a cancellazione tutto ciò che poteva ricordare più o meno
direttamente il passato. Nella fattispecie l’intitolazione di una chiesa
acquistava il significato simbolico del predominio di una confessione
sull’altra; ecco perché le chiese consacrate a S. Elia Tesbite, a S.
Sofia, a S. Cristina, a S. Panteleo, ma anche a S. Filemona, a S.
Vittoria, a S. Basilio, a S. Simeone, a San Gregorio Nazianzeno, devono
considerare necessariamente la loro fondazione ne periodo pre-scismatico.
Fra i culti religiosi esclusivi del mondo bizantino è caratteristico
quello riservato all’imperatore Costantino, venerato come santo e come
isapostolos, ovvero pari agli Apostoli. Questo culto è tuttora presente in
Sardegna, nonostante Costantino non risulti canonizzato per la Chiesa
Cattolica; anzi, la devozione nei suoi confronti è testimoniata, fra le
tante manifestazioni celebrative, dalla bellissima festa del 6 Luglio a
Sedilo, durante le quale si corre l’Ardia, una cavalcata che rievoca la
storica vittoria di Costantino contro Massenzio, avvenuta nel 312 presso
il ponte Milvio. Indicative del credo bizantino sono pure le intitolazioni
relative al culto della Croce e dello Spirito Santo, l’Agion Pneuma, il
Paràclito, oggetto presso gli Ortodossi di particolare venerazione. Anche
alcune chiese dedicate alla Madonna tradiscono una matrice chiaramente
bizantina: da Santa Maria Bambina, in sardo Santa Mariedda, alla Madonna
del Latte dolce (la cosiddetta Panaghia Galaktotrophoùsa) che viene
venerata al Sassari, fino alla Madonna delle Grazie, il cui è stato
introdotto dall’imperatrice Irene Daukas. Un capitolo a parte andrebbe poi
dedicato alla Madonna Assunta in cielo che, anche in Sardegna, così come
in tutte le province dipendenti da Bisanzio, veniva celebrata, anziché il
18 gennaio, il 16 Mesori, ovvero il 15 di agosto. Questa consuetudine si è
mantenuta a tutt’oggi e non è l’unico elemento che denota l’origine
greco-orientale della festa; la Madonna è infatti rappresentata dormiente,
secondo la Koìmesis (koimhsiV) greca, abbigliata con abiti sontuosi e
ricoperta di gioielli, così come viene raffigurata nelle icone bizantine.
Ma anche la ripetizione del rito all’ottavo giorno e la presenza, sotto la
lettiga della Madonna, del basilico a foglia piccola - quello che in sardo
a quanto riporta il Cherchi Paba viene chiamato affabbica murteta -
confermano la medesima matrice culturale. Ricordiamo inoltre il culto
destinato alla Madonna del Fico, la cui statua è conservata nel monastero
di S. Pietro di Silki (SS). La coltivazione di questo frutto è
tradizionalmente legata alla diffusione dei monaci studiti, ligi alla
ferrea regola del digiuno per gran parte dell’anno e comunque rispettosi
del vegetarismo totale. Un altro monastero, chiamato di Santa Maria de
Figu Alba, compare in un documento del XI secolo, citato fra le chiese
donate nel Cagliaritano ai Vittorini di Marsiglia. Nella Sardegna
bizantina era diffusa anche la venerazione destinata agli Angeli ed
Arcangeli, definiti Tassiarchi, ovvero comandanti delle milizie celesti;
lo attesta, fra l’altro, un bassorilievo rappresentante un serafino con
sei ali, visibile nell’architrave della chiesa di Ghilarza, consacrata
appunto a San Serafino. A proposito del culto attribuito agli arcangeli,
il pontefice Leone IV, nell’850 circa, in un’epistola inviata a Giovanni,
arcivescovo di Cagliari, aveva condannato la costruzione di una chiesa,
“sita in predio Lustrensis”, proprio perché dedicata all’Arcangelo,
accusando il promotore di questa iniziativa, il precedente arcivescovo
Arsenio, addirittura d’eresia. Su questo delicato argomento si era già
espresso chiaramente S. Agostino, definendo tale culto latreia e
precisando anche che era lecito onorare gli angeli “caritate, non
servitute”. Fra gli Arcangeli venerati in Sardegna un ruolo di particolare
rilievo è rappresentato da S. Michele, che, in qualità di taxiàrcos,
incarna la figura del Santo combattente. Facendo uno studio accurato delle
chiese a lui consacrate nell’Isola è interessante constatare come, forse
non casualmente, esse siano in genere ubicate in siti di notevole
interesse strategico - militare. La figura di S. Michele è comunque
polivalente e presenta altre chiavi di lettura; è ad esempio psicopompo,
guida delle anime in Paradiso, talora raffigurato iconograficamente con
una bilancia in mano. Con questa connotazione è venerato anche in
Sardegna. In un documento del 1113, che certifica la donazione del
monastero di S. Nicolò di Trullas ai Camaldolesi, si legge: “Auxiliante
Domino Deo, et Salvatore nostro Jesu Christo, et intercedente pro nobis
beata et gloriosa, semper Virgine Dei Genitrice Maria, et beato Michaele
Archangelo tuo praeposiìto paradisi”. S. Michele appartiene persino alla
schiera dei santi-guaritori, probabilmente erede, per sincretismo
religioso, delle facoltà terapeutiche del dio Esculapio; infatti alla
taumaturgia di S. Michele era connesso, anche nell’Isola, il rito
dell’incubazione, che consisteva nel far dormire l’ammalato all’interno
del santuario dedicato all’Arcangelo, in modo che gli fosse indicata in
sogno la terapia più efficace per curare la propria infermità. Alcuni
studiosi esprimono riserve sull’introduzione in Sardegna del culto di S.
Michele ad opera dei Bizantini, considerato che tale culto è diffuso anche
in Occidente nella medesima epoca. Fermo restante che è auspicabile
evitare la tendenza all’iperbizantinismo, come la definisce Borsari,
questa ipotesi non esclude però, aldilà dell’attribuzione specifica
dell’introduzione nel territorio sardo del culto di S. Michele, che la sua
diffusione abbia avuto un esito così fortunato anche in virtù della
venerazione di cui l’Arcangelo godeva già nel mondo bizantino, e che sia
stata perciò accolta come elemento di naturale continuità fra le due
Chiese. |
A parte S. Michele, resta comunque indiscutibile che sulla base
della dedicazione a santi del menologio è possibile identificare
nell’Isola la matrice bizantina di numerose chiese, ricordiamo quelle
dedicate a S. Sofia, presente ad esempio a San Vero Milis, a Santa Sabina
(Silanus, Nuoro), a Santa Filomena (Bosa e Ortacesus) ed a Santa Apollonia
(Zeddiani). Così come è da attribuire certamente alla fondazione di monaci
bizantini il monastero di San Nicola di Trullas, in provincia di Sassari.
Già la denominazione, che è anche un toponimo, è altamente indiziaria; il
termine troulla significa “cupola” ed indica che la chiesa, attualmente
visibile in stile romanico - lombardo, in realtà era in origine cupolata,
secondo la tipologia bizantina più canonica. A conferma di questa tesi,
oltre alla dedicazione a San Nicola, ci è di supporto l’atto di donazione
della chiesa da parte di Pietro de Athen a favore del monastero di San
Salvatore di Camaldoli; datato 1113; questo documento, oltre ad attestate
la fondazione dell’annesso monastero, avalla la preesistenza di un antico
eremo con i relativi “donnos heremitas”. Va comunque ricordato che il caso
di San Nicola di Trullas è purtroppo decisamente atipico ed è rarissimo
che le fonti documentali ci siano d’aiuto in questo genere di ricerca. E’
anche vero però che, oltre all’esistenza di strutture chiesastiche
completamente rimaneggiate rispetto all’impianto originario, vi sono
fortunatamente in Sardegna altre chiese immediatamente riconoscibili come
bizantine, pensiamo ad esempio a S. Giovanni di Assemini, databile X-XI
secolo, con una pianta a croce greca inscritta e, secondo una soluzione
icnografica, caratteristica dell’architettura sacra greco - orientale.
Nella predella dell’altare è inoltre visibile un’iscrizione in greco, in
cui viene citato un Torchitorio arconte di Sardegna. Un’altra iscrizione
greca è murata sulla soglia della Parrocchiale di Assemini, dedicata a San
Pietro: in essa Torchitorio e la moglie Nispella chiedono, oltre alla
protezione di S. Pietro e Paolo, di S. Giovanni Battista e della
Partenomartire Barbara, la remissione dei peccati. La pianta cruciforme
compare anche nella chiesa di S. Maria Iscalas di Cossoìne, nella
provincia di Sassari, la quale presenta, sull’intersezione dei bracci, una
cupola emisferica di copertura. Segnaliamo inoltre la chiesa di San
Salvatore ad Iglesias, a croce lattina immessa, sormontata attualmente da
un tiburio rastremato di forma tronco-piramidale, ma che in origine si
presume, sulla scorta delle tracce d’imposta di una volta, fosse
sovrastata da una cupola ellissoidica. Certamente non potremo tralasciare
di nominare le chiese quadrìfide di S. Teodoro a San Vero Congius, di S.
Elia a Nuxis, ma il monumento senza dubbio più rappresentativo
dell’architettura bizantina in Sardegna è il San Saturno di Cagliari,
caratterizzato da una pianta a croce greca, con cupola a bacino impostata
su un tamburo a sezione quadrata, così come il corpo centrale.
Probabilmente è il prototipo ispiratore di tutti gli edifici bizantini
dell’Isola. Abbiamo menzionato solo alcune delle chiese sarde la cui
tipologia è indubbiamente di influenza greco-orientale. Se teniamo in
considerazione anche i toponimi e in particolar modo gli agiotoponimi
presenti in Sardegna si ottiene un quadro oltremodo interessante da cui si
evince che la diffusione dei centri religiosi bizantini è registrabile
pressoché ovunque nell’isola. Particolarmente degna di rilievo appare però
tutta l’area del Sulcis-Iglesiente fino alle estreme propaggini
meridionali della Sardegna. Sappiamo ad esempio con certezza che questo
territorio ha costituito l’ultimo baluardo della Chiesa bizantina in
Sardegna. Ne fa fede un documento del 1335 conservato all’Archivio della
Corona d’Aragona, in cui i monaci Basiliani chiedono al re Alfonso IV il
Benigno la concessione della chiesa di Santa Barbara di Capoterra. Essa
doveva però essere già di loro pertinenza, da quanto si deduce
dall’iscrizione relativa alla sua fondazione, nella quale viene menzionato
un certo “frate Guantino […] et heremitas suos”. Per quanto riguarda lo
studio degli edifici di culto di matrice bizantina presenti in questo
vasto territorio, ci offre un notevole contributo il Vidal, che nel 1638
cita “las iglesias, oratorios y eremitas que tiene la comarca
ecclesiense”; in realtà questo elenco non si limita al contado di Iglesias
in senso stretto, che appare invece notevolmente dilatato, ma comprende
anche i territori di Tratalias e Santadi. Le chiese ricordate sono ben 73,
di cui la stragrande maggioranza dedicate a Santi del menologio, come San
Gregorio, Santa Vittoria, Sant’Elia, ben 3 intitolate a Santa Barbara, 2 a
San Nicola, 4 a San Giorgio Megalomartire, 2 all’Angelo. Essendo questo
territorio piuttosto vasto, abbiamo concentrato la nostra attenzione in
particolare nell’area a nord della città di Iglesias, compresa tra Porta
Fontana ed il territorio di Antas; in essa sono situate, in base
all’elenco del Vidal, 11 aule di culto, di cui 3 appartenenti ai
corrispondenti possessi monastici di San Antonio Abate, patrono degli
eremiti e degli anacoreti, di Sant’Elena, di Santa Cruz, - ecco che
ricompare il culto tipicamente bizantino della Croce - definita
quest’ultima “Confradria de Seguis” da Padre Aleo. Se poi procediamo con
l’analisi stilistica ed icnografica degli edifici sacri in questione, con
l’esame delle strutture murarie - là dove è chiaramente possibile - il
quadro cronologico che si ottiene è ulteriormente confermato e ci riporta
attor no al X-XI secolo. Non è evidentemente casuale che Padre Aleo, che
scrive attorno al 1680, definisca il Cixerri, la regione in cui si trova
Iglesias, “La cabeça del Grecismo” e sottolinei a più riprese come
“Iglesias [...] se ha llamado da tempo immemorial [...] Ciudad de
Griegos”, intendendo chiaramente per “Griegos” i bizantini. Anche il Vidal
insiste su questo appellativo: “Civitate graecorum, nunc Igiesias” e anzi
riporta passi di altri autori che offrono la medesima testimonianza:
Botero, Thomas de Castillone, Bergomensis, tutti definiscono Iglesias, o
meglio il territorio che ad Iglesias fa capo, “città dei Greci”. |
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